Per Non Dimenticare
Il 27 gennaio 1945 le truppe dell'Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz.
In occasione del Giorno della Memoria, oltre agli ebrei , zingari , omosessuali … sterminati per la “ purezza della razza ariana “ vogliamo ricordare anche quelli di Jacurso arrivati nei Lager nazisti come prigionieri di guerra. Soldati ma soprattutto giovanissimi ragazzi di Jacurso dei quali poco si conosce . Deportati come prigionieri . Diversamente e miglior sorte ebbero , invece, i prigionieri in mani inglesi.
Auschwitz
Arrivarono in sei . Prigionieri deportati in Germania. Due di questi, aiutati dalla buona sorte ,fecero ritorno mentre gli altri soldati , ufficialmente deceduti per incidente o polmonite, furono quasi certamente soppressi , com’era abituale nei campi dei lavori forzati , quando , per inabilità o malattie, non erano più in condizioni utili per lavorare .
Auschwitz fu inaugurato dai nazisti il 26 marzo 1942 con quasi mille donne. Il giorno della liberazione, il 27 gennaio 1945, ne erano sopravvissute circa quaranta. Ecco la loro storia. E perché furono 999 prigioniere, e non mille.
Il 27 gennaio 1945 le truppe dell'Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. In occasione del Giorno della Memoria, commemoriamo le vittime dell'Olocausto con una storia poco conosciuta, tutta al femminile, tratta dall'articolo "Le prime 999 prede di Auschwitz" dalla rivista Focus Storia .
La Slovacchia era un piccolo Stato che aveva conquistato una formale indipendenza soltanto nel 1939, come vassallo del Terzo Reich. Il presidente, Jozef Tiso, sacerdote cattolico e fervente nazionalista, non chiedeva di meglio che mostrare gratitudine ai nazisti. Le misure adottate nei confronti degli ebrei slovacchi pero assecondavano anche un diffuso antisemitismo locale, fomentato dalla Guardia di Hlinka, un corpo paramilitare con compiti di polizia politica.
Adesso, pur di disfarsi dei propri ebrei consegnandoli agli aguzzini nazisti, la Slovacchia era pronta anche ad accollarsi tutte le spese di trasferimento in Polonia.
A PIEDI NUDI NELLA NEVE.
Situata sul sinuoso corso del fiume Soła, ai piedi di un pittoresco castello medievale, Oswiecim era stata solo una graziosa cittadina fino a quando i tedeschi la scelsero per fondare il campo di Auschwitz. Era una macchina cieca votata a due soli obiettivi: contribuire allo sforzo bellico tedesco, producendo, tra l'altro, gomma artificiale, e annientare in relativa segretezza ebrei europei, dissidenti, rom, omosessuali e altre persone non gradite attraverso denutrizione, malattie e camere a gas. Non prima però di averli sfruttati fino all'esaurimento fisico.
All'epoca le donne non erano ritenute forti quanto gli uomini, ma la realtà avrebbe mostrato che era un pregiudizio: le ragazze slovacche furono esposte a interminabili appelli nell'alba gelida, dove bisognava spalmare grasso d'oca nelle narici, quando ce n'era, per evitare che il naso sanguinasse; furono costrette a camminare a piedi nudi nel fango e nella neve e a lottare per minuscole razioni di cibo. Colpite da punizioni arbitrarie, vennero impiegate per lavori durissimi: bonificare terreni, trasportare terriccio e materiale edilizio o smantellare edifici, tutto con la sola forza delle braccia. Chi riusciva a farsi assegnare il compito di trascinare i cadaveri nelle fosse comuni, poteva considerarsi fortunata.
Nelle camerate non c'era riscaldamento, ne brande. Solo paglia lurida, piena di pulci e cimici, sparsa sul pavimento. E dieci gabinetti per più di novecento ragazze. In queste condizioni, la morte era più che un'eventualità, tanto che le autorità del campo costringevano le ragazze a scrivere rassicuranti cartoline post-datate da inviare alle famiglie, che spesso arrivavano quando le mittenti non erano più al mondo. Le aguzzine delle ragazze slovacche erano detenute tedesche provenienti dal campo di Ravensbruck.
Molte erano criminali comuni, ma tra loro c'erano anche oppositrici del regime, testimoni di Geova e omosessuali. Alcune diventarono kapò, felici di ricevere dalle Ss «carta bianca per punire, stremare, picchiare e uccidere le giovani ragazze e donne ebree». Anche loro, come le deportate slovacche, erano 999.
I bambini e le bambine erano le cavie ottimali per " la ricerca " nazista. Esperimenti " a crudo " , per questi esseri senza alcuna colpa,destinati a subire dolori fisici e morali provocati dagli esperimenti esercitati sui loro corpi.
Dune Macadam non pensa che il ricorrere di questo numero sia una semplice coincidenza: «Non credo che Himmler abbia fatto nulla per caso. Non solo "999" ha un significato numerologico (il 9 è un numero ombra, cioè con connotazioni negative: tre nove insieme, nel caso dell'Olocausto, indicherebbero un desiderio di porre fine a qualcosa), anche le date dei trasporti erano state individuate in giorni astrologicamente favorevoli. I nazisti d'altronde erano estremamente superstiziosi e avevano ogni sorta di credenze bizzarre».
PERCHÉ 999
Alla terribile prova sopravvissero solo le ragazze più fortunate o intraprendenti. Come quelle che, per esempio, riuscirono a schivare i lavori pesanti all'aperto: la fatica, il freddo e la mancanza di calzature adeguate (una ferita al piede poteva costare la vita) portavano entro breve a morte certa. Le più fortunate trovarono lavoro nel "Canada", il luogo del campo dove venivano smistati i beni depredati agli ebrei. Coperte, cappotti, occhiali, stoviglie, attrezzature mediche, scarpe, orologi... tutto veniva caricato su treni di ritorno in Germania, per essere ridistribuito alla popolazione o ai soldati tedeschi. Chi aveva la fortuna di lavorare qui dentro, era meno esposto al freddo, alle arbitrarie violenze delle SS e alla fame, perché capitava di poter mettere le mani sul cibo che i deportati avevano infilato nei bagagli.
SOPRAVVISSUTE.
Il giorno della liberazione di Auschwitz, il 27 gennaio 1945, delle ragazze ne erano sopravvissute circa una quarantina. Per loro la fine dell'incubo fu anche l'inizio di una nuova, pericolosa odissea per tornare a casa (sempre che ci fosse ancora una casa ad attenderle), esposte al rischio di essere stuprate da quegli stessi soldati russi che le avevano liberate. Ria Hans, che aveva lavorato nell'infermeria di Josef Mengele e aveva assistito a esperimenti su cavie umane, facendo di tutto per salvare il maggior numero di ragazze possibile, percorse a piedi oltre mille chilometri. Al suo arrivo, nell'agosto del 1945, pesava trentanove chili. Fu una delle poche a trovare i genitori ancora vivi. Moltissime ragazze, appreso che la loro famiglia semplicemente non esisteva più, preferirono emigrare, disperdendosi un po' ovunque nel mondo.
Mai più Odio e Razzismo. Ricordare per Non Dimenticare .Per impedire i nuovi
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Testimonianze ...per Meditare
Auschwitz
"Vi siete mai chiesti quanti bambini nacquero ad Auschwitz? Vi siete mai chiesti quante donne partorirono il frutto delle violenze subite all'interno dal #lager?
Un numero preciso non siamo in grado di fornirlo, perché non fu tenuto conto nell'anagrafe del campo di questo dato proprio perché molti di loro vissero solo pochi minuti.
Grazie alla testimonianza di Stanisława Leszczyńska, furono circa 3000 i nati vivi a cui ella prestò personalmente assistenza. Di questi circa la metà furono soppressi immediatamente dopo il parto dal personale del campo, annegati in un barile. Un altro migliaio circa morirono di fame freddo e malattie.
Era una pratica diffusa bendare il seno alle #puerpere proprio per impedire loro l'#allattamento, in questo modo era possibile testare la resistenza dei bambini prima di morire di fame.
Un'altra pratica adottata ad Auschwitz (per esempio da IrmaGrese), era quella di legare le gambe alle donne durante il travaglio, per assistere alla loro sofferenza e alla morte lenta di mamma e bambino.
Alcuni più fortunati, grazie alle loro caratteristiche somatiche, furono destinati all'adozione di coppie tedesche aderenti al Progetto Lebensborn.
Di quelli che purtroppo rimasero al campo, solo una trentina riuscirono a sopravvivere, insieme alle madri fino a che non arrivarono le truppe alleate.
La registrazione delle nascite avvenne a partire dalla metà del 1943. Prima non era consentito a nessun neonato di sopravvivere ad Auschwitz. Da quella data in poi, sopravvissero solo i neonati destinati ai campi per le famiglie. In questo caso al nuovo nato veniva assegnato un numero, tatuato sulla pelle.
Una volta iniziata la liquidazione del campo, si cercò di uccidere tutti i bambini nati ad Auschwitz. Solo in rare eccezioni riuscirono a salvarsi. È per questo che possiamo affermare con certezza che la quasi totalità dei bambini che nacquero nel campo, perirono nel campo.
Vorrei riportare qui di seguito la testimonianza di un sopravvissuto ad Auschwitz, RobertoRiccardi, che nel suo #libro "Sono stato un numero" racconta cosa veniva fatto ai bambini nati da poco. La brutalità di queste parole non ci può lasciare indifferenti:
«Un giorno io e un altro prigioniero ci trovavamo vicini ai carretti per il trasporto dei bambini. Dovevamo farne salire a bordo alcuni, fino a completare un carico. Una SS si avvicinò, indicò con il dito un bimbo di un paio di mesi e disse al mio compagno di lanciarlo sul carretto. Per rendere l’ordine più chiaro, mimò il gesto con le braccia, disegnando un volo molto ampio.
Lanciarlo? chiese il mio compagno, sbigottito. Il tedesco insisté. Gli puntò contro il fucile, urlò, e a lui non rimase che eseguire. In un istante che durò un’eternità, la SS sollevò la sua arma, prese la mira e sparò al piccolo mentre era in aria, come fosse al poligono di tiro. Lo centrò in pieno. Un suo collega, che osservava la scena da vicino, imprecò. Meno male, pensai, c’è ancora qualcuno che ha nel cuore un po’ di umanità.
Ma presto quello che aveva brontolato si calmò, si mise una mano in tasca e prese dei marchi. Accennò a un sorriso sforzato, strinse la mano all’altro e gli consegnò il denaro. Impiegai un po’ per capire. Su quel tiro avevano scommesso, ecco spiegata la delusione del perdente.
Lo vidi fare più volte. Ogni volta eravamo noi a dover portare i bambini ai loro carnefici. Noi a lanciarli in aria, sotto la minaccia delle armi, con le SS che si esercitavano a colpirli mentre erano in volo».
" Per non dimenticare MAI!"
le Auschwitz senza memoria
"La sensibilità non si vende e non si compra nei centri commerciali ... o c’è l’hai o non c’è l’hai " - Domenico Dastoli
Questo è Enrico Galiano, il professore che ….
"Ieri ho detto ai ragazzi: “Domani venite a scuola con una bottiglietta d'acqua vuota”.
Sui loro volti, lampante che neanche le insegne di Las Vegas, la domanda “E che cavolo si inventerà stavolta il prof?”
“Lo vedrete domani”.
Oggi sono entrato in classe. Con un secchio.
Ho detto ai ragazzi di sedersi in cerchio. Ho dato a ciascuno di loro un piccolo foglio di carta.
Gli ho detto: “Adesso pensate alla persona a cui volete più bene al mondo. Poi disegnate un omino stilizzato e vicino ci scrivete il suo nome”
“Ma io posso scriverne due?”
“Certo, anche tre se vuoi!”
E dopo ho chiesto loro di riempire la bottiglietta, di versarla nel secchio e di tornare a sedersi.
L'idea me l'ha data un libro: Ammare, di Alberto Pellai e sua moglie Barbara Tamburini. Perché domenica è la Giornata della Memoria, e sinceramente a me di parlare solo di Shoah non mi va più.
Perché per pensare che il passato si stia ripetendo identico bisogna essere un po' miopi. Ma per non vedere pezzi di quel passato nel nostro presente, bisogna essere proprio ciechi.
Davanti ai loro occhi ho fatto una grande barca di carta, e gli ho detto di metterci ciascuno il proprio foglietto sopra. Poi ho appoggiato la barca sulla superficie dell'acqua. Infine ho iniziato a far vacillare il secchio, fino a che la barchetta non si è ribaltata, facendo cadere giù tutti i foglietti. Tutti quei nomi, quegli omini, giù in fondo al secchio.
C'era chi aveva messo il papà, chi la migliore amica, chi il cuginetto di un anno.
Si è creato un silenzio incredibile. Più di un minuto senza che nessuno fiatasse. E se qualcuno sa come sono i ragazzi di terza media, sa che avere un minuto di totale spontaneo silenzio è quasi un miracolo.
C'erano anche degli occhi lucidi. Oltre ai miei, dico.
E allora ho raccontato loro del naufragio del 18 aprile 2015, in cui nel Canale di Sicilia sono morte più di mille persone, tante quasi come nel Titanic. La loro barca, un peschereccio fatiscente che di persone ne poteva contenere al massimo duecento.
E ho raccontato loro di una di quelle: un bambino più piccolo di loro, originario del Mali, che è stato ritrovato con la pagella cucita sulla giacca.
“Secondo voi perché un bambino dovrebbe salire su una barca così?”
“Per far vedere che aveva studiato!”
“Per dire a tutti che era bravo a scuola!”
E poi un ragazzino macedone, di fianco a me, a bassa voce ha detto:
“Forse per far vedere che non era cattivo, come molti pensano di tutti quelli che arrivano”.
La campanella è suonata. Anche per non appesantire troppo il momento, ho detto loro di mettere a posto tutto, di andare a ricreazione. Sono usciti, e piano piano hanno ricominciato a parlare, a chiedersi la merenda, le solite cose.
Sono rimasto solo a sistemare la mia roba.
Poi è successa una cosa.
A un certo punto sento dei passi dietro di me.
Tre ragazze.
“Scusi prof”
“Sì?”
“Noi vorremmo...”
“Voi vorreste...?”
La più coraggiosa delle tre prende il coraggio e dice tutto in un fiato:
“Possiamo tirare fuori quei fogli da lì?”.
Ci siamo chinati, li abbiamo tirati su uno per uno, insieme.
E intanto io le guardavo, e dentro di me pensavo che finché tre ragazze decidono di saltare la ricreazione per tirare su dal fondo di un secchio dei fogli di carta, c'è ancora motivo per credere in un mondo diverso".
Questo è Enrico Galiano, il professore che vorrei per tutti i figli del mondo.
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Lo stemma di Jacurso
Francesco Casalinuovo jacursoonline Ass. Cult. Kalokrio