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O ta' cu' era Ulisse? Parte Terza

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. . . . continua Parte Terza
e via din don din don din dondan
Appena il ferro si raffreddava mastro Nicola lo rimetteva nel fuoco e di nuovo via con il mantice. Mastro Nicola sapeva usare ogni centimetro dell'incudine e guardandolo lavorare  Bruno  capì che c'era bisogno di una grande abilità per sagomare il ferro.
Maestria nelle mani e negli occhi. Non prendeva le misure con strumenti ma guardava e valutava e nel giro di mezz'ora era pronta la prima scarpa. Per raffreddarla la metteva ancora rossa in un grande bidone pieno d'acqua e poi con uno scalpello particolare si avvicinava all'asino prendeva una delle zampe davanti l'alzava e incominciava a tagliare l'unghia cercando di mantenere l'angolazione giusta affinchè quando l'asino si inerpicava carico in salita avesse il miglior appoggio e non faticasse molto. Dopo averla pulita rientrava nella horgia prendeva il ferro dall'acqua, lo rimetteva a riscaldare di nuovo e quando era abbastanza rosso lo prendeva con la solita forbice e avvicinandosi all'asino  gli rialzava la zampa e lo appoggiava così caldo all'unghia e questa incominciava a friggere e un odore caratteristico si spandeva per l'aria. La vicina di casa aveva già chiuso la porta per non sentire quella puzza e alla figlia piccolina diceva “oje mastru Nicola vindigna. Iddu(?) vindigna e a nui dassa la puzza”.  L'asino quasi non si muoveva tranne per il roteare della coda per mandar via le mosche. Conosceva quelle mani che già altre volte avevano fatto quel lavoro ai suoi piedi e lui sapeva che con quelle scarpe le sue giornate sarebbero state meno faticose.
Bruno era entusiasta e ammirava in silenzio il lavoro che veniva fatto. Ogni tanto mastro Nicola gli chiedeva se avesse mangiato la ricotta hrisca, ma lui era troppo piccolo per comprendere i doppi sensi del horgiaro e rispondeva che la madre quando faceva le ricotte le doveva portava al negozio per venderle e né lui ne i fratelli e le sorelle potevano toccarle. E mastru Nicola lo provocava ancora dicendo che non di quelle ricotte lui voleva sapere ma di un altro tipo... e siccome parlava con un tono particolare tra lo spiritoso e l'ammiccante , lui sapeva perchè altre volte era successo con altre persone , non capendo quello che gli voleva dire , cercava di non dimostrare eccessivo interesse per quello che sentiva e che  a lui era sconosciuto il significato di quelle parole, pensava che questo mistero non glielo avrebbe risolto né il padre né la madre  e che doveva tenere le orecchie ben aperte per cercare di capire di quale tipo di ricotta si trattasse.
Lui ne conosceva due tipi di vacca e di pecora, poi c'era una terza quella di capra ma non sentiva di niente, non aveva molto sapore, forse allora ce n'era una quarta che lui non aveva mai assaggiato e  che  a rischiare di chiedere spiegazioni al padre o alla madre avrebbe significato almeno due cose  o che lo prendevano in giro e lui non aveva nessuna voglia di dimostrare la sua ignoranza oppure c'era qualche tipo di ricotta particolare che i grandi conoscevano e i piccoli come lui non dovevano o non potevano ancora conoscere. E lui si fermava qui.  Conosceva ,a sue spese, certi limiti e non voleva andare oltre.
Bruno scendeva al paese solo di domenica per sentire la messa. La madre vestendolo di festa gli raccomandava di pregare in chiesa e soprattutto di divertirsi. Questa parola lui non la conosceva. Aveva un bel suono e Bruno pensava che era una cosa che succedeva solo in paese. La madre mai gli diceva va e divertiti. E quando gli diceva di divertirsi, gli porgeva di nascosto anche delle ombre 5 lire e gli sussurrava nelle orecchie , comprati un cono, per cui il divertimento era mangiarsi un cono e lui adorava mangiarlo. Ma non lo mangiava soltanto. Appena imboccavano con il padre la strada sterrata che portava a Jacurso, incominciava a gustare quell'ora e mezza di divertimento al paese. Stava molto attento a dove metteva i piedi per non impolverare le scarpe, ma soprattutto stava attento a non inciampare. Inciampare significava sbattere violentemente con una delle due scarpe su qualche pietra e perdere qualche taccia. Ed era un dramma perdere le tacce perchè significava che le scarpe invece di durare per anni si consumavano più facilmente e quindi non c'era la possibilità di comprarle perchè soldi non ce n'erano e il calzolaio per fare le scarpe voleva soldi , molti soldi. Scendere dalla montagna era uno sforzo di concentrazione. E lui conosceva ormai a memoria il tragitto e conosceva tutte le pietre e i profondi solchi che la pioggia d'inverno lasciava nel tratto che dal piano di piccirillo portava a morici. Su quello sterrato rosso Bruno dimostrava a se stesso e al padre quanto era attento. Il padre invece a piedi nudi per non consumare le scarpe camminava come se stesse camminando sulle piume. Tranquillo, non guardava la strada, e quei piedi abituati alle asperità del lavoro quotidiano, abituato a dividere con le capre rovi e pietre,  sicuri si muovevano con precisione come le lancette della sveglia che bruno osservava sempre sul bordo del camino. Bruno sapeva e per questo lo invidiava che il padre con il calcagno affrontava le vipere o altri animali senza alcuna paura e senza tentennamenti. Individuata la vipera si avvicinava  silenzioso come un serpente e con mossa fulminea con il calcagno gli schiacciava la  testa.  Non facevano rumore e percorrevano quella strada che lui conosceva a memoria come se stessero camminando su una ruotaia. Scivolavano.
Bruno le prime volte faticava a seguire il ritmo del padre, ma poi si abituò anche lui e camminando pensava ad altro.
Soprattutto pensava ai suoi coetanei, vestiti in modo diverso dal suo. Calzoncini corti e a volte colorati, lui invece un paio di pantaloni neri lunghi, una maglia con le maniche corte  bianca o di altro colore, lui una camicia a quadrettoni abbottonata fino al collo, sempre la stessa, d'estate  sandali ai piedi come i monaci, lui sempre le scarpe con le tacce. Ma era orgoglioso e non aveva alcuna invidia per quei bambini rumorosi che correvano come scriteriati lungo le stradine del paese.

continua....

 

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