Memoria contadina alle falde di Monte Contessa

La memoria:

la terra ,i contadini ...un passato rurale da non dimenticare

 Riallacciandomi a quanto si scriveva, nell’ultima parte dell’articolo, sul Monte Contessa dove si parla dei nostri contadini che mantenevano salubre la montagna e tutta la campagna veniva lavorata senza lasciare nessun pezzetto di terreno incolto.

 Dove le tracce, di tante case in pietra sparse e ben inserite nel territorio, restano come testimonianza di un passato laborioso e non più ripetibile. Jacurso è stato, fin da tempi remoti, un paese in cui l’agricoltura ha sempre avuto un ruolo importante nella sua economia dove non ci sono stati grandi latifondisti ma solo piccoli e medi proprietari terrieri, coloni e braccianti giornalieri che lavorando la terra garantivano una vita dignitosa alla propria famiglia. Pensando alla condizione dei nostri contadini rispetto alla proprietà, al tipo di contratto o alla mezzadria, la terra è stata per tutti sinonimo di sacrifici per coltivarla, di dura fatica e quasi sempre condotta senza nessun mezzo meccanico ma solo ed unicamente “cu la zappa” ed anche l’unico modo per guadagnarsi il pane quotidiano. Per molti nostri compaesani la terra è stata anche casa, famiglia, speranze, progetti di vita, avvenire, morte…. Sulla nostra terra si nasceva e si moriva. Di terra, di colture, di “putare”, de “simianti”, de “margi”, de “majisi”, delle condizioni del tempo della pioggia che non arrivava o che non voleva più smettere si parlava in continuazione: in piazza, davanti alla chiesa, alla Cona, nelle bettole ecc… spesso citando detti o proverbi della nostra cultura popolare che si tramandavano da padre a figlio, di generazione in generazione a seconda delle stagioni. Spesso le terre erano situate su sentieri scoscesi e anche lontane dal centro abitato o anche nei territori dei comuni limitrofi: Maida, Cortale, Curinga ecc.. e i contadini erano costretti a raggiungerle a piedi non avendo da pagare “lu postale”. Cosi prima di affrontare una dura e lunga giornata di lavoro, dalla mattina all’alba fino a sera, bisognava prima con il buio della mattina e poi della sera, camminare per decine di chilometri, mentre le donne erano costrette a caricarsi sulla testa dei gravosi recipienti: “cisti”, “panari”, “varrili” ecc… “cu la curuna supra la testa”, pieni di prodotti che bisognava portare in paese. La produzione agricola era caratterizzata dalla coltivazione del grano, “ndianu”, avena, orzo, lupini, patate oltre agli ulivi, alla vite e da tutti i tipi di ortaggi per uso alimentare. Il nostro territorio era anche dedito alla pastorizia sia in montagna che nelle nostre campagne allevamenti di: caprini, ovini, suini, vaccini, pollame offrivano i prodotti sia per il proprio consumo familiare che per il commercio come la carne, il latte i formaggi ecc.. Oltre al lavoro quotidiano della propria terra durante l’anno, la manodopera si rendeva utile e necessaria anche stagionalmente: per zappare e seminare in autunno, per la mietitura e la trebbiatura all’inizio dell’estate. Un paesaggio agricolo ricco di case rurali sparse, masserie e tanta montagna e campagna coltivata. Anche nel nostro centro abitato erano presenti animali, alcuni girovagavano per il paese, altri dimoravano nelle stalle o nei “catoia” ai piani bassi delle case, altri addirittura dimoravano con le persone. Per cui l’igiene pubblica a quei tempi  era un problema da affrontare con la massima attenzione onde evitare epidemie o morbi e infezioni di qualsiasi natura. L’evolvere della società negli ultimi cinquant’anni, la rapida affermazione delle tecniche moderne e dell’industria anno reso superati i modi e le tecniche tradizionali di lavoro nelle campagne. Di fronte a questa rapida evoluzione, la cultura tradizionale del mondo contadino rischia di scomparire, essendo finita la trasmissione di una sapienza antica alle giovani generazioni. Con la perdita della tradizione si rischia che  vengono dimenticate le tecniche secolari di lavorazione della terra e dei  prodotti  in uso nel mondo contadino, quella cultura orale, quel passaggio da padre a figlio, da generazione in generazione, che senza l’ausilio di trattati o di testi scritti aveva saputo formare tutti i lavoratori della terra “la civiltà contadina”. Tutti i termini legati alla cultura contadina arricchiscono la lingua calabrese e i dialetti locali, come i canti, i detti popolari e le filastrocche che accompagnavano i diversi momenti del vivere insieme in una comunità. La terra intesa come fonte di sostentamento, una cultura contadina passata è stata abbandonata sul finire del secolo passato e poi nel secondo dopoguerra. Milioni di emigranti verso le Americhe prima e tantissimi addetti alle catene di montaggio del Nord poi, hanno lasciato le campagne ed affollato le fabbriche per dare alle famiglie un futuro più prosperoso e migliore. Si lasciavano cosi, nelle case sui campi, gli ormai  vecchi genitori contadini e tutto un patrimonio di esperienze di vita ormai inutili davanti al progresso, allo spreco di energia, all’inquinamento e indifferenti all’andamento delle stagioni. Tutti figli dell’età della zappa uomini e donne ormai esperti nel conoscere fin da bambini le diverse qualità del legno o delle piante, e i loro usi. La civiltà contadina, fatta di fatica e miseria è cosi arrivata verso una società modernizzata, libera da antiche pene e di agi di vita modesti, è cosi scomparsa, ad essa è subentrata una nuova fase storica volta alla modernità, al cambiamento, all’informazione. Non ho nessuna nostalgia per quella civiltà contadina piena di stenti e privazioni, nessuna nostalgia per quel mondo dove le persone vivevano nelle difficoltà e la forza di andare avanti, nessuna voglia di tornare indietro ma la corsa al progresso, allo sviluppo è diventata una corsa senza regole verso la distruzione di ogni cosa: risorse, territori, città, rapporti umani. Lo svuotamento del senso di agire nel sociale, la scomparsa dei valori della vita spirituale, non consentono di guardare al progresso socio-economico e tecnologico della società attuale, che ha sopraffatto la realtà contadina, con la fiducia di un tempo.

 

Domenico Mazza