Jacurso

JACURSO,

Varius, multiplex, multiformis, territorio dai mille sguardi incastonato tra Jonio e Tirreno, in faccia alla Presila , già collina in odor di montagna.

Questi nostri paesi si direbbero marini e campagnoli,in forma di frutto spaccato a meta sulla collina e con gli spalancati al golfo. Profumo di acetosella,di menta,di spigo ,di lavanda,di origano selvatico. Argentea rete di uliveti degradanti al torrente,ondeggio del pioppo,del provvido fico ,del gelso prezioso. Affacci straordinariamente mediterranei ;burroni arditi,antichi anfratti della volpe e del brigante,carbonaie spente,vite greca abbarbicata al sentiero: eterna promessa contadina nel sole. Mediterranei balconi  soleggiati di garofani ,orti conclusi di basilico e rose,profumi nell’abbandono, nella polvere,nell’antico tempo che fu. Luce diretta nel golfo ,incanto perfetto,rossore della pietra vetusta nel tramonto sui volti delle case di pietra: pietra amara delle nostre fiumare. Poi ,alle spalle ,all’improvviso la montagna : la bella ,lei,l’abbandonata,l’odiata-amata  < Contessa>. E qui diresti un altro mondo:paesaggi      colori, profumi diversi,diverse promesse. Uno ,due ,tre affreschi  nel raggio di pochi chilometri .La montagna di Jacurso sconosciuta ed abbandonata, incredibile, straordinaria risorsa. Da padroni la quercia accogliente,lo svettante castagno,il pino,la faggeta ombrosa,la docile  <ginestra aulente > scesa coi cesti dalla montagna al paese per la processione del Corpus Domini .Sorgenti,fontane ,incredibili antichi percorsi sterrati in odore di Serra San Bruno ,grandi respiri,grandi,inusitati silenzi. Accozzaglia verde,marrone arancio,luce brillante ed azzurra –debito eterno ed antico contratto della bassa montagna con i due mari-regno del gufo, del falchetto ,occhieggio di more  d’estate e morbido incedere al passo dell’autunnale castagna. Basta poco ,e nell’altro versante,quello collinare ,il fico d’india ,l’alloro,il mirto sacro a Venere,l’argilla sotto i tuoi piedi. il salice ed il melograno .Ti sembra Grecia.Ti sembrerebbe ancora Arcadia. Poi  la montagna che qui è uguale a < patientia> , memore terra di fatiche ,d’attese,di partenze:antico rito dell’addio. Fumigante di nebbie d’inverno sovrastata dai cieli lilla – azzurri,svaporati e leggeri,di settembre,calda e sola al volo della quaglia dopo la mietitura,pane fragrante di forno ,grano nel cassone,fumo alla carne lavorata per un anno ed appesa a festa sulla canna bruna  del soffitto. Terra ,tesori,sapori in balia del tempo , ferma clessidra di una cultura contadina,tenace ed antica quanto la sua terra,intanto troppo gratuita,umile di secoli per dirsi un tesoro.

 

Carmela Anna Mutone