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A Tà cu era ...Ulisse

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Perchè Ulisse !

 

e Ulisse passava i giorni seduto sugli scogli, consumandosi a forza di pianti, sospiri e pene, fissando con i suoi occhi il mare......

 

 

….. Ulisse , è allora dentro  l’immaginario inconscio di  ogni emigrante che ,imbrigliato dall’emotività umana,preferisce adagiarsi in una condizione di disagio ,di insoddisfazione e sofferenza anziché  essere paziente verso qualcosa che possa risollevare l’animo.

Dietro il vetro del postalino Bruno chiude i luoghi conosciuti nel barattolo dei ricordi come stesse sgranando i  grani del rosario e quasi si sofferma e dilunga la sofferenza della partenza . Forse perché quel disagio è figlio di tanti altri ,quindi conosciuto e quasi familiare. Paradossalmente più sicuro della partenza verso una terra che non conosce.

Siamo tutti emigranti emotivi , sembra voglia dire il nostro amico autore , anche perchè , tenacemente incollati alle nostre radici , ci commuoviamo per  quel tanto di Ulisse che ci rimane addosso.

L’odore acre del postalino , Vasili , la Machinella ,Sgalera sino al Colombaro di Maida …dove  Bruno non regge più e cede …..in un sonno riparatore.

Sembra allora di capire che esistono dei confini territoriali ideali dentro i quali si è sempre percepita la sicurezza nelle sofferenze .

E per uscire da questo recinto immaginario ,pare di intravedere , si ha bisogno necessariamente  di un passaporto anch’esso immaginario senza il quale sarà impossibile oltrepassare le  barriere .


Quello che sta per fare Bruno è un viaggio nell’anima quasi surreale e trasognato , infelice e spavaldo,  che  lo porterà a conoscere altra gente , altri odori  , altri panorami e valigie di ricordi.

Noi terroni restiamo legati alla ferrovia della Stazione di Maida e siamo fatti così. “ "Amiamo la terra che abbiamo abbandonato ,quando la lasciamo , e la odiamo se siamo costretti a restare o quando c’è qualcosa che impedisce di partire. "

francocasalinuovo    Jacursoonline   ass. cult kalokrio

 

dalla Raccolta " Racconti Brevi " di  Mimmo Dastoli


 

O tà cu' era Ulisse?

Se ne era andato arrabbiato, deluso,  in un pomeriggio invernale con una valigia di cartone legata con lo spago. Alle 3, prese il postalino di Foderaro , senza farsi accompagnare dai suoi, moglie, figli padre madre  fratelli e sorelle, a testa bassa come un ladro ordinò al fattorino un biglietto di sola andata per la Stazione di Maida, salì i tre gradini dello sportello di dietro, e si buttò sull'ultimo sedile non ancora occupato come pietra stanca di rotolare.

C'era puzza di sudore e di terra nel postalino.

A quell'ora , con quel mezzo partivano le persone che non sarebbero mai più tornate.

Il tetto del postalino era carico di bauli e valigie come quella di Bruno e dentro un'umanità silenziosa e ardente contrastava con l'allegro sragionare senza senso di Michele il fattorino che intascava il costo del biglietto e concludeva i discorsi con un “avanti c'è posto”.

Alle 3 e 10 lo sciaffer di ritorno dall'ufficio postale dove aveva consegnato la posta in arrivo e prelevata quella in partenza  si sedeva davanti all'enorme sterzo del postalino.Metteva in moto e , dopo aver chiesto a Michele se potevano partire, abbassava il freno a mano, innestava la prima e piano piano trascinava quel carico umano verso chissà dove.

Bruno e gli altri conoscevano a memoria quella bianca strada che si srotolava dalla curva del garage e poi via via la curva del Comitato , e infine fuori paese la prima curva a gomito, in campagna , quella di Vasili detta della Latteria che projettava quel piccolo postale verso il nulla; un forte rallentamento alla curva stretta e pericolosa della Machinella, e poi Sgalera, una galleria di castagni  con le braccia nude  alzate al cielo quasi a chiedere perdono  per la fuga di quelle persone sedute dentro quell'ammasso di ferraglia , e giù a farsi la croce alla Conola di carro de marco.

Con gli occhi chiusi per nascondere le lacrime di rabbia Bruno pensava alla strada e per ogni accelerata o rallentata diceva fra se e se “adesso siamo al casino di 'ntonino...adesso siamo ai colibraro...adesso alla curva di spadea adesso alla conola di san francesco, al palombaro  al girone di san Francesco e qui Bruno perse la memoria e si addormentò.

Aveva lavorato fino a mezzogiorno era stanco. Stanco non per il lavoro perchè gli amici scherzosamente lo chiamavano Sansone per la sua forza enorme e per i suoi capelli, e spesso qualcuno gli gridava dietro quando tornava dal barbiere con i capelli tosati “muoia sansone con tutti i filistei”.

Dal barbiere poteva andare due volte l'anno perchè i soldi scarseggiavano e qualche volta saltava questo rito del taglio  perchè la moglie qualche volta glieli accorciava lei.

Per non sbagliare prendeva uno dei pochi piatti che servivano per mangiare ,  l'appoggiava dove c'era l'attaccatura dei capelli dietro alla cervice  e  piano piano per non fare scale accorciava  quei capelli che a lei piacevano da  morire  e ogni volta che li accarezzava un turbamento feroce e allo stesso tempo languido le dava il senso del suo amore per Bruno.

In quei momenti lo desiderava con un desiderio senza limite, una lotta clandestina l'assaliva e doveva far finta di niente: si mordeva le labbra, il respiro prendeva la discesa e con tutto quel tramestio interno allungava i tempi del rito. Si strusciava con il suo poderoso seno alle spalle di Bruno e i capezzoli si indurivano come se stessero per scoppiare: desiderava che le sue mani, le mani callose e nonostante i calli e forse anche per quelli, di Bruno alleviassero quella sofferenza e allora lei continuava ad armeggiare le forbici e il piatto, rimproverando il marito di non muoversi altrimenti avrebbe fatto delle scale alla sfumatura e i suoi amici lo avrebbero preso in giro: appoggiava la sua pancia alla schiena del marito e lui avvertiva sul collo il fiato di Annuzza e sentiva il profumo ,cioè l’aroma , della sua bocca.

Ma doveva resistere. Con lei si sarebbe visto la “sira de sabatu”. E solo per questo motivo consentiva alla moglie di fargli la sfumatura. Quando arrivava da Antonio il barbiere, questi gli diceva “Bruno ma con quale livella ti sei fatto fare la sfumatura?...sto scherzando non ti arrabbiare...

Si svegliò ovvero venne svegliato dalla simpatica voce del fattorino che guardandolo negli occhi gli disse “tu non vuoi andar via, e nemmeno gli altri, però bisogna..., partire  “vieni che mi aiuti a scendere dal portabagagli la tua valigia. E' vero che è leggera ma è sempre una valigia.” aveva riacquistato il suo tono di voce ironico e scherzoso “dove te ne vai a Novajorca anche tu?  Li si sta bene, noi qua a buttare il sangue senza utile, a stento per mangiare.

Buon viaggio Sansone , e gli porse con allegria la mano, mandaci una cartolina e salutani li paesani.

Bruno strinse la mano con poco vigore, si prese la valigia e si incamminò verso la stazione ad aspettare il treno che lo avrebbe scaricato a S. Eufemia  per poi prendere il diretto per Napoli.

Al bigliettaio ordinò un biglietto di terza classe, pagò e si sedette ad aspettare l'accelerato.

La sala d'attesa, così indicava un cartello arrugginito attaccato ad una  parete che non vedeva il pennello dei pittori da almeno un ventennio, era la stessa stanza dove c'era la biglietteria. La stazioncina si affacciava sull'unica rotaia e a sinistra e a destra all'inizio e alla fine del piccolo marciapiede la scritta in grande Stazione di Maida .

Spaesato Bruno , lontano dai campi e dalle strade polverose di Jacurso attese che arrivasse il treno.Nemmeno una parola gli uscì dalla bocca, nemmeno per domandare da quale direzione sarebbe arrivato il treno. A che gli sarebbe servito sapere da quale direzione sarebbe arrivato il treno? Aveva solo un desiderio; avrebbe voluto che non arrivasse mai.

Attese.

Attese seduto su un banco di legno e con la valigia fra le gambe come se temesse che qualcuno gliela rubasse. Aveva sentito dai suoi amici come i napoletani rubassero le valigie a chi partiva e già incominciava a proteggere i suoi tesori. Napoli era una città grande e lui si sentiva già dentro nel momento in cui  era entrato  nel postalino.

Un vento freddo che veniva da ponente attraversava di corsa le porte di entrata e di uscita della stazione lasciava un profumo di salsedine e di muschio che si sovrapponeva all'odore strano  che avrebbe in seguito riconosciuto come l'odore delle  stazioni.

Quei binari neri e lucidi che si allontanavano a perdita d'occhio davano  a Bruno l'idea dell'infinito, lui che era abituato al finito del suo paese.

Una strada bianca che lo attraversava da ponente a levante, un numero di case che per Bruno erano moltissime,  a scirocco la Contissa e di fronte al paese il Reventino la pre Sila  la montagna di Tiriolo  e poi in fondo Catanzaro e il mare. In quella pre Sila lui conosceva ogni anfratto a cominciare da ponente dove si vedevano le case di Santa Eufemia dove adesso lui era diretto e dove c'era la stazione grande, Sambiase un paese più grande abitato da sambiasini uomini coraggiosi e duri, poi Nicastro ancora un po' più grande  e dove da piccolo ogni due anni andava il 13 giugno con suo padre e sua madre alla fiera di sant' antonio lu scuazune ( così lo chiamavano i sambiasini per disprezzare i nicastresi).

Lì aveva  visto per la prima volta i monaci, uomini con un saio scuro la barba lunga e i capelli tagliati in modo strano, e lì aveva visto  per la prima volta la fiera degli animali, buoi, cavalli, pecore, maiali, capre, mucche , vitelli . E poi Pianopoli, Feroleto, i villaggi di Serrastretta, jevoli, polverino e poi ancora vena di maida , Miglierina, Amato, Tiriolo e poi Catanzaro e l'altro mare, il mare da cui aveva sentito dire che i jacursesi erano arrivati, non si sa bene da dove.

Il mare  che Bruno non aveva mai visto e che c'era a ponente e a levante e che gli amici dicevano che non finiva mai e che la sua acqua era sempre in movimento. Quante volte aveva desiderato di vederlo questo mare, di conoscerlo e, anche se a volte la paura del suo movimento lo sopraffaceva c'era qualcosa dentro di se che lo spingeva a non avere timore perchè se si muoveva da solo voleva dire che c'era qualche forza misteriosa e divina che lo dirigeva, e questo pensiero lo tranquillizzava, lo rasserenava. Lui non aveva timore di Dio perchè era rispettoso delle cose di Dio che aveva imparato quando aveva fatto la prima comunione.

 

Le cose di Dio si imparavano da piccoli.

 

 




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